Associazione Mantovani nel mondo

Lunario contadino di Franco Turrina

{linkr:none}Testimonianze di un’epoca segnata dai ritmi delle stagioni, accompagnati dal lavoro e da esperienze secolari.

Umili azioni degli uomini, figli della millenaria cultura contadina.
Gennaio

Gli animali riposano tranquilli, disturbati dal vociare di tanti bambini che, assieme alle mamme e ai nonni trovano riparo dal freddo nel tepore delle stalle. Le donne si portano da casa gomitoli e ferri per lavorare a maglia, i bambini spesso i compiti e qualche volta imparano filastrocche e poesie. Gli uomini,(se il tempo lo permette), imbacuccati con vecchie sciarpe e guantoni fatti in casa, potano i lunghi filari di alberi che costeggiano i fossi e le strade. Nei giorni più freddi, il castaldo consentiva che venisse acceso un fuoco al quale potersi riscaldare le mani gelate, durante brevi pause. In quei tempi, la legna era un valore e gli alberi venivano curati con metodo ed esperienza. Ogni tre anni la potatura dei platani e dei pioppi, i gelsi ogni quattro. In questo mese si effettuavano anche i trapianti di nuovi alberelli, in sostituzione di vecchie ceppaie. Lungo i fossi venivano messe a dimora pioppi, salici ed ontani. Lungo le strade: platani, olmi e querce, adatti questi ultimi per ricavarne travi ed attrezzi agricoli. Se la neve o il gelo rendevano impossibile ogni lavoro nei campi, allora anche gli uomini si rifugiavano nelle stalle. I più abili riparavano attrezzi o confezionavano scope di saggina. Noi ragazzini seguivamo con interesse il lavoro dei nostri padri: La preparazione dei legacci flessibili e tenaci, ricavati da vimini di salice rosso, messi a macero nel letame all’inizio dell’inverno. Qualche anziano, intrecciava con sapiente esperienza gli stessi vimini per ricavarne cesti o nasse per la pesca.
Il 17 gennaio (S. Antonio), santo protettore del bestiame. Quella giornata tutti gli animali; buoi e cavalli, rimanevano a riposo. I contadini, quel giorno, davano abbondanti porzioni di biada e il fieno migliore. Il prete, passava a benedire le stalle e i pollai.
La Madonna della “seriola” ricorre il 30 gennaio, confusa con le previsioni della merla, si recitava una filastrocca rassicurante. ” alla seriola dall’inverno semo fora, tra niol e seren quaranta di ghe nem“. Ci consolava nel dire che il peggio era passato ma, che comunque ne avremmo avuto ancora per 40 giorni tra fasi alterne.

Febbraio
Le notti fredde e ventose di febbraio, chiamano a raccolta congressi di gatti..
I miagolii profondi, quasi lamenti umani, intercalati da zuffe improvvise, soffiate, dal fienile alla stalla, ci ricordavano che era febbraio e che i gatti andavano felicemente in amore.

Il tre febbraio (san Biagio), la sera si andava in chiesa per ricevere la benedizione della gola: Il rito prevedeva che tutti i fedeli, in fila passassero a baciare due ceri incrociati ed accesi con i quali il sacerdote ti toccava la gola pronunciando alcune parole in latino beneaugurati. Il santo protettore della gola, capitava in una data propizia, infatti in pieno inverno molta gente soffriva del male di gola e raffreddore. L’occasione di dover uscire, al buio, intabarrati, stretti vicini l’uno all’altro per difendersi dal freddo, favoriva felici incontri ravvicinati.

La pulizia dei fossi si effettuava in questa stagione.
Tutti i canali di irrigazione e di servizio venivano prosciugati e puliti dai detriti e dalle erbacce accumulatesi. Sistemate e riparate le chiuse di regolazione, controllati gli argini.

Poiché in quegli anni (secolo scorso), la tecnologia non era ancora in grado di offrire stivali di gomma a buon mercato. Per consentire lunghe permanenze nell’acqua in quella stagione, i nostri nonni avevano ereditato, forse dai loro nonni, strumenti utili a proteggere i piedi nel fango gelato. I cassoni. Erano veri e propri cassonetti di legno, costruiti da artigiani capaci, garantivano la perfetta tenuta (o quasi). La forma era quella di parallelepipedi trapezoidali, indossati come stivali, alti fino al ginocchio e riempiti poi di paglia Consentivano lenti ed impacciati movimenti a chi doveva lavorare nel letto di un fossato dal fondo irregolare e fangoso, ma i piedi rimanevano asciutti. Verso gli anni ’40 comparvero dalle nostre parti i primi stivali in gomma, erano però costosi e freddi ma facilitavano i movimenti e certamente garantivano una maggiore impermeabilità.

Sempre in febbraio, in campagna si dovevano approntare le buche per angurie, meloni e zucche. Erano buche abbastanza profonde, distanziate tre, quattro metri, riempite di letame e ricoperto da un cumulo di terra. In aprile poi, spianato il cumulo si sarebbero affondati i semi.

Marzo.

Sarebbe interessante conoscere l’origine e il significato di una manifestazione rumorosa che si tramandava di generazione in generazione e che aveva luogo il primo giorno di marzo. I ragazzi nei paesi, nelle corti, organizzavano il “cioca marzo“. Provocare rumori assordanti trascinando per le strade vecchi recipienti metallici legati con un filo di ferro: pentole arrugginite, bidoni senza fondo, orinali bucati, coperchi ecc. mentre la squadra batteva con grossi bastoni gli stessi recipienti ad aumentarne il rumore e con alte grida invocava MARZO… Le giornate si sono allungate vistosamente.

L’ultima neve ha resistito negli anfratti e lungo i muri a tramontana, ma ora il vento, non più gelido, ha pulito ogni traccia e qua e la fanno capolino le ortiche novelle e primi fiori di primavera. In campagna i lavori incombono:
Ultimare la potatura degli alberi da frutta e delle vigne, legare i tralci e posizionare nuovi pali di sostegno. Pettinare i prati con l’erpice leggero o con l’impiego di rami di platano, legati a forma di una grossa scopa, trainata da cavalli. La “pettinatura” dei prati aveva lo scopo di rompere gallerie superficiali lasciate degli insetti e dal gelo nel terreno, inoltre, triturare grumi di letame che vi era stato sparso a novembre.
Dopo questa operazione, si raccoglievano eventuali sassi affiorati. Il prato doveva essere pulito onde evitare danni futuri alla falciatrice meccanica o alle falci a mano. 

Un pesante rullo di pietra, trainato da animali,veniva fatto rotolare su tutta la superficie del prato. Il rullo serviva a compattare il suolo che il gelo invernale aveva sollevato e reso spugnoso compromettendo la salute e la vita delle piantine. L’operazione di rullatura veniva fatta anche sui terreni coltivati a grano, proprio per compattare il terreno che il gelo aveva sollevato.  Prima però si doveva zappare tutto il campo, con una zappetta piccola e leggera. In quegli anni non esistevano diserbanti e le erbe infestanti erano combattute appunto con la zappa. “In marzo, chi non ha scarpe va scalzo“.

Non è una gran rima, ma nelle giornate di tiepido sole veniva adottata dai più.

Via le pesanti “sgalmare“(scarponi chiodati con il fondo di legno) I primi passi insicuri dato che i piedi non erano più abituati alle asperità del terreno, poi tornavano i calli che ci avrebbero protetto nelle scorribande, o nel lavoro fino all’ autunno. In marzo uscivano dal letargo le rane e noi ragazzi a piedi nudi, nel fango dei fossati a caccia con le mani.
Le rane che riuscivamo ad afferrare, venivano infilate in un sacchetto di stoffa che portavamo appeso alla cintola. Un detto popolare precisava che le rane andavano consumate nei mesi il cui nome contiene un’erre: maRzo, apRile, settembRe, ottobRe ecc.

Anche dicembre e febbraio contengono un’erre, ma le rane in quei mesi erano protette in profondi cunicoli nel terreno, in letargo. Per non sbagliare e data la fame, noi mangiavamo rane dalla primavera al tardo autunno, indipendentemente dal mese con o senza la erre..

Le prime viole profumavano l’aria e noi ragazzini dedicavamo pomeriggi interi a cogliere e comporre mazzolini profumati, da portare alla maestra il giorno dopo. Le bambine, molto più diligenti dei maschi in quest’attività, riuscivano sempre a ” bagnarci il naso” e ad ottenere migliori complimenti e considerazioni. Una fastidiosa conseguenza dei primi giorni dell’andare scalzi e con i piedi nel fango erano ” i sciapin“, dolorose screpolature alle caviglie ed ai polpacci, forse provocate dal vento (bagnasciuga). Ovviamente c’era sempre il pericolo di qualche spina nei piedi da tenere in considerazione.

In quella stagione le donne si apprestavano a fare la prima “bugada” dell’anno.

Tutta la biancheria, (quella poca che c’era), indossata durante l’inverno, veniva accumulata in una grande tinozza, coperta con un vecchio (ma proprio vecchio) lenzuolo. Sopra il lenzuolo era steso uno strato di cenere, accumulata e conservata nei mesi precedenti. Sulla cenere poi, si versava acqua bollente fintanto da riempire la tinozza.

Lasciato raffreddare ed a macero per una notte, il giorno dopo si toglieva il tappo della “soiola“, (la vecchia tinozza a doghe di legno), e raccolta la lisciva, (liquido grigiastro sgrassante), per ulteriori piccoli lavaggi. Con la lisciva le nostre mamme c’imponevano un energico lavaggio dei piedi che risultavano veramente puliti e profumati. 

La biancheria era portata al fossato, battuta sulla pietra apposita e risciacquata nell’acqua corrente. Questo lavoro era abitualmente eseguito in coppia, assieme alla vicina di casa della corte. Una lunga fune sostenuta da pali, era tesa sull’aia e su questa venivano stese lenzuola e biancheria varia che sventolando al sole portava una nota di colore e primavera alla cascina.
All’imbrunire, frotte di pipistrelli svolazzavano attorno ai vecchi fabbricati. Questo piccolo innocuo mammifero volatile, portava fino a noi, retaggi di inquietanti misteri. Il suo letargo, la forma delle sue ali, la sua vita notturna e silenziosa, aggiunto a fantasiose credenze diffuse in epoche lontane creava un alone di repulsione e di paure ingiustificate..

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